Econumanità: ritrovare un equilibrio tra economia e umanità
Si tratta di un neologismo pensato per rappresentare i valori che da sempre ispirano l’attività della nostra azienda: Ecologia, Economia e Umanità. Tre principi cardine che abbiamo voluto fondere, o meglio confondere, in un unico sostantivo senza attribuire all’uno piuttosto che all’altro una preminenza gerarchica. Proprio perché riteniamo che si armonizzino perfettamente in quel concetto di ‘equilibrio dinamico’ che da anni campeggia come payoff sotto il logo di Paradisi.
Abbiamo chiesto a Marco Marcatili, economista e responsabile sviluppo della società di studi economici Nomisma di darci la sua personale interpretazione di ‘Econumanità’, che ha espresso magistralmente nel testo che potete leggere di seguito.
Lo studioso, orgogliosamente marchigiano, da anni si occupa di analizzare l’evoluzione dei sistemi economici, con particolare riferimento al contesto urbano territoriale e ambientale, di co-progettare piani di sviluppo, di valutare l’impatto ecosistemico delle decisioni di investimento e dell’analisi strategica dei territori nella costruzione di processi di sviluppo locale, di rigenerazione urbana e di valorizzazione patrimoniale.
Potrebbe apparire perfino bizzarro, se non fossimo nell’ambito di una sana e produttiva BCorp come la Paradisi Srl, proporre un ri-equilibrio tra economia e umanità in un contesto generale di grande diseconomia e disumanità.
Da un lato, l’economia non riesce più a raggiungere i livelli di sviluppo degli anni passati, tanto a livello nazionale quanto, ancora di più, a livello regionale. Tutte le Istituzioni internazionali avevano già rivisto al ribasso tutte le proiezioni di crescita nazionale ancor prima della manifestazione dell’incertezza politica attuale. Banca d’Italia ha certificato un peggioramento della situazione marchigiana nei primi mesi del 2019 e un gap di 3 miliardi di minor produzione di ricchezza all’anno rispetto al periodo pre-crisi. Non fa più notizia la lunga “depressione” regionale che allarga costantemente il nostro divario economico e sociale rispetto alle regioni manifatturiere e, in maniera sorprendente, anche rispetto a pezzi di Sud in rinnovato fermento, ma la retorica locale si è forse tardivamente liberata dalla rappresentazione del suo rigoglioso passato distrettuale, e fatica a riconoscere e condividere una nuova fase di “re-start”.
Da tutt’altro lato, l’antico proverbio della cultura popolare italiana “chi fa da sé fa per tre” sembrerebbe essere diventato la cifra dell’agire individuale e politico di questo tempo, in un clima orientato sempre contro gli altri: i migranti (la chiusura dei porti), gli avversari commerciali (le guerre tariffarie), l’establishment (perciò disaffezione e astensionismo, se non rancore e ribellione), solo per fare alcuni esempi più eclatanti. Proprio l’idea di combattere contro qualcuno e non per qualcosa, senza una rotta precisa di medio termine, rischia di diventare un passaggio culturale spericolato, che apre la strada alla perdita del senso della “comune umanità”.
Come ci ricorda il sociologo ed economista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Mauro Magatti, “la crisi finanziaria ha rotto gli equilibri del ventennio 1989-2009 e ora il capitalismo è alla ricerca di una nuova conformazione”. In quella fase di espansione nella globalizzazione, la crescita economica ha prodotto una serie di “fratture” non più sostenibili: tra la l’economia e il sociale, tra l’umano e l’ambiente, tra la produzione e la finanza, tra la competizione e la collaborazione. Mentre tutto si espandeva, tutto si slegava: il nostro modello di crescita ha indebolito la trama dei rapporti sociali, inasprito le diseguaglianze, minacciato le possibilità di sviluppo futuro, eroso ogni intermediazione, svuotato le istituzioni. Ogni slegatura è diseconomia e si pagano oggi i conti della fase storica alle nostre spalle.
Nelle imprese e nei territori, dunque, la sfida comune per migliorare il benessere futuro è ri-costruire legami, ri-comporre le relazione società e ambiente, ri-equilibrare economia e umanità. Non sappiamo ancora bene in che cosa consisterà la prossima crescita economica, ma una crescita senza valore di legame non è duratura, una crescita senza energia psichica non è possibile e una crescita senza “Econumanità” non è sviluppo.
Contrariamente a quello che siamo abituati a pensare – diceva Max Weber – “l’economia non è una macchina, ma una costruzione sociale e traduce in consistenza materiale l’evoluzione spirituale di un popolo”. Siamo cresciuti con forti “squilibri” e ci aspetta una nuova stagione di “riequilibri”: per fare ciò, ed evitare di finire definitivamente “squilibrati”, può essere utile lanciare qualche “boa” a tutti i decisori e co-produttori di un territorio.
Prima boa: per produrre valore serve creare valori. L’aumento di ricchezza e di benessere passerà da scelte in grado di aumentare l’economia, l’umano, il sociale e l’ambiente contemporaneamente. Lo stesso guru del management strategico, Michael Porter, padre nel 1986 della Catena del Valore, di fronte alla nuova sfida epocale ha coniato nel 2011 la teoria del Valore Condiviso in cui alla generazione di profitto devono affiancarsi benefici per la comunità e per il pianeta. In questo senso, migliorare la qualità delle relazioni umane, occuparsi di una sfida sociale o ambientale, come quella dell’acqua, dell’alimentazione o della salute, deve essere concepito come un vero e proprio business, non come atto filantropico esterno o indipendente dal core business. È in questo senso che la teoria del valore condiviso non è destinata alla generazione di una categoria di imprenditori intelligenti o superuomini in grado di assumere scelte così complesse, ma intende favorire nuove alleanze e una credibile coralità produttiva.
Seconda boa: non è più sufficiente la Responsabilità Sociale d’Impresa, se vogliamo promuovere modelli alternativi alla crescita dobbiamo mirare alla Responsabilità Civile nella forma della “cittadinanza globale dell’impresa”, indicata da Stefano Zamagni, economista dell’Università di Bologna e padre dell’economia civile. Se con la responsabilità sociale d’impresa ci si limita a chiedere all’impresa di dare fedelmente conto di quel che fa e di mostrare le ricadute delle proprie azioni sulla comunità, non solo sulle tradizionali performance aziendali, con la responsabilità civile si chiede all’impresa di non limitare il proprio raggio di azione agli stakeholders di diretto interesse e di farsi carico di aspetti culturali, sociali, ambientali del contesto in cui operano. L’impresa non è più un’organizzazione chiusa, ma una infrastruttura aperta a cui viene richiesto – nella suo stesso interesse – di migliorare la qualità di un territorio, co-determinare le condizioni di felicità pubblica e assicurare la sostenibilità dello sviluppo umano integrale.
Terza boa: crescita e sviluppo non sono la stessa cosa. Essere imprenditori o decisori di sviluppo è più complesso che occuparsi (solo) di crescita. S-viluppo (“s” privativa) indica l’azione di liberare dai viluppi, dai lacci e catene che inibiscono la libertà di agire e cambiare. Il concetto di sviluppo è associabile a quello di progresso, inteso come cambiamento con incremento di valore. Ecco perché lo sviluppo non può essere ridotto alla sola dimensione economica, ancor’oggi misurata da quel ben noto indicatore che è il PIL. Perché ci sia sviluppo, oltre alla crescita economica, devono crescere altre due dimensioni di valore: quella socio-relazionale e quella spirituale. Lo sviluppo umano integrale è un progetto di trasformazione che ha a che vedere col cambiamento in senso migliorativo della vita delle persone.
In questa ottica conviene recuperare l’insegnamento Shumpeteriano per cui “il cambiamento è inevitabile, ma cambiare diventa una scelta”. Una schiera di “condottieri” delle BCorp ha già scelto di cambiare e non solo di resistere, per non restare imballati e produrre finalmente Econumanità!